Archive for Luglio, 2014

Da Trento primo stop al contributo unificato di giustiziaby Studio Legale Padula

Innovativa ordinanza del Tribunale di giustizia amministrativa di Trento in tema di contributo unificato nel processo amministrativo. Con provvedimento del 25 giugno 2014 n. 58, uno studio legale ha ottenuto la sospensione del pagamento vedendosi riconosciuto il rischio di un pregiudizio grave. La storia recente del contributo da versare a corredo di ogni azione giudiziaria, vede – dall’altroieri – un’ultimo balzo all’insù per i giudizi civili varato con l’articolo 53 del dl 90/2014 (si veda Il Sole 24 Ore del 25 giugno) .
Da tempo, peraltro, nella giustizia amministrativa il contributo ha destato forti perplessità, sia per l’entità, sia per il suo moltiplicarsi in caso di motivi aggiunti. Proprio il Tribunale di Giustizia amministrativa di Trento, con ordinanza n. 23 del 29 gennaio 2014 si è rivolto alla Corte di giustizia Ue ritenendo che il contributo imposto a carico di chi impugni appalti sia, per l’elevato suo importo, in contrasto con i principi di agevole accesso posti dalla Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989 n. 665. Coerente a tale dubbio, giunge ora un singolo provvedimento cautelare che sospende una richiesta di pagamento indirizzata a tre avvocati da parte della segreteria del Tribunale di giustizia amministrativa di Trento.

Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoAmministrativo/2014-06-27/trento-primo-stop-contributo-110142.php

Nel processo telematico le regole tecniche hanno forza sostanziale: no all’atto in un formato non ammessoby Studio Legale Padula

di Giovanni Negri

Gli standard fissati dal ministero della Giustizia per il processo telematico non possono essere aggirati. Non ogni formato online può essere considerato rispondere ai requisiti minimi necessari. Anche quando, per caso, sia stato di fatto acquisito al sistema del processo civile digitale. A queste conclusioni approda un’interessante pronuncia del tribunale di Roma del 9 giugno con la quale è stato dichiarato inammissibile un ricorso per decreto ingiuntivo. A fermare il ricorso è stato il formato dell’atto: questo infatti è stato depositato sotto forma di «scansione di un’immagine e non consente operazioni di selezione e copia di parti». In sostanza si tratta di una copia sia pure firmata digitalmente.

Per arrivare al giudizio di inamissibilità il tribunale ricostruisce il quadro normativo di riferimento partendo dal decreto del ministero della Giustizia del 21 febbraio 2011 con il quale sono state introdotte le regole tecniche del processo telematico, cui sono tenuti ad adeguarsi tutti gli operatori del processo nella redazione degli atti. Il decreto affidava al responsabile per i servizi informativi automatizzati del ministero della Giustizia il compito di fissare le specifiche tecniche. A questo compito rispondeva il successivo provvedimento del 18 luglio 2011, con il quale, all’articolo 12, tra l’altro, si precisava come l’atto del processo in forma di documento informatico doveva rispettare 3 requisiti:
• il formato pdf;
• l’assenza di elementi attivi;
• il fatto di essere ottenuto dalla trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, veniva posto divieto alla scansione di immagini.

Verificata allora la difformità tra la scansione di altro documento cartaceo e la necessità di trasformazione in formato pdf di documento testuale le conseguenze giuridiche sono pesanti. Infatti, è l’articolo 121 del Codice di procedura civile a stabilire che «gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo».

La norma, che i giudici sottolineano assurgere al rango di principio del diritto processuale civile, è certo nata in un contesto storico al quale era estranea la dimensione digitale degli atti e dei documenti. Tuttavia, pur nell’ambito di una generale libertà delle forme, è ammessa la possibilità di un’imposizione di forme determinate. Così, «a ben vedere, quando ciò avvenga non è consentito affidarsi al criterio del raggiungimento dello scopo per sancire la validità di un atto compiuto senza il rispetto delle forme stabilite». In questo senso non vale una lettura esclusivamente “sostanzialista” dell’articolo del Codice.

E, per quanto riguarda la forza da dare ai regolamenti del ministero che determinano le regole tecniche indispensabili per la funzionalità del processo civile telematico, queste costituiscono integrazione della normativa primaria. L’adesione alle regole tecniche costituisce poi un passaggio indispensabile per assicurarne praticabilità e rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata dei giudizi. E allora «l’unicità dello standard costituisce lo strumento senza il quale non è neppure concepibile lo svolgimento di un processo in forma telematica».

Pertanto, prosegue il provvedimento del tribunale di Roma, lo «scopo» dell’atto processuale non può essere costituito solo dalla rappresentazione delle proprie determinazioni a giudici e avvocati delle altre parti, dal momento che non si può certo pensare che un sms o una mail possano dare validamente corso a una procedura telematica. Lo scopo dell’atto digitale diventa allora «quello di inserirsi efficacemente in una sequenza intrinsecamente assoggettata alle regole tecniche che impongono l’adozione di particolari formati in luogo di altri». Non può dunque che essere derubricata a semplice casualità l’acquisizione da parte del sistema dell’atto che era stato espresso in una forma non ammessa. Anzi, l’ultima versione del sistema messa a punto per il contenzioso civile dovrebbe permettere anche lo sbarramento tecnico dei file espressi in formato anomalo.

Fonte: http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/civile/2014-07-16/nel-processo-telematico-regole-tecniche-hanno-forza-sostanziale-no-atto-un-formato-non-ammesso-180453.php?uuid=ABm0WKbB

Divorzio breve, matrimonio pureby Studio Legale Padula

Massimo Silvano Galli, Pedagogista e Teresa Laviola, Avvocato | 17 luglio 2014

In un bell’articolo del 2009 (“Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo” -Repubblica, 1 settembre 2009), il filosofo Umberto Galimberti esortava, tra le altre cose, a riflettere sulla fragilità delle relazioni di coppia contemporanee, segnate dalla tendenza, sempre più diffusa, alla separazione, quasi che, per boutade paradossale, l’accesso al divorzio si configurasse quale passaggio fondamentale per giungere al (vero) traguardo della separazione.

Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un’epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.
Cinque anni dopo quell’articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.
Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell’amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.
Già nei nostri precedetti interventi su queste pagine abbiamo sollecitato a riflettere su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del “Non ti amo più” che spinge alla separazione.
Non è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.
Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l’insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell’esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l’amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).
Così, mentre un po’ in ogni dove del vivere contemporaneo, l’escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell’amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell’amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con grande consapevolezza.

Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoCivile/famiglia/2014-07-17/divorzio-breve-matrimonio-pure-112148.php

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